Torna restaurato nella chiesa Anime Sante del Purgatorio di Vita l’antico tabernacolo della famiglia Sicomo che fondò, nei primi anni del ‘600, il piccolo centro della Valle del Belìce. L’opera, preziosa e unica nel suo genere, è stata sottoposta ad attento restauro. Il tabernacolo proviene dalla chiesa madre che, durante il terremoto del Belìce nel 1968, fu distrutta. Ma non è escluso che la famiglia Sicomo lo fece realizzare ancora prima della costruzione della Matrice. L’opera di metà ‘600 è di gusto barocco ed è composta da tre elementi lignei assemblati tra loro,
abilmente intagliati e dorati con doratura a guazzo in oro zecchino. Le volute laterali sagomano lo spazio e contornano l’ovale centrale che racchiude diversi simboli cristiani: il cuore con la corona di spine, simbolo di Gesù immolato per la salvezza eterna; l’occhio di Dio protettore dell’umanità (o come divina provvidenza); il fascio di spighe e i tralci di uva che contornano il tutto simboli eucaristici. «La sorpresa davvero straordinaria è stato trovare sullo sportello della piccola base a scomparsa, utilizzata probabilmente per l’esposizione del Santissimo Sacramento, lo stemma della famiglia Sicomo inciso nel medaglione», spiega la restauratrice Rosalia Teri. Dagli atti si conosce che il 19 agosto 1605 l’avvocato Vito Sicomo ricevette l’autorizzazione all’esercizio dei privilegi, quali il Mero e Misto Impero, acquistato insieme al Feudo di Cartipoli e quindi diventò il Barone di Cartipoli futura Vita. Prezioso e originale è anche il rivestimento interno del tabernacolo che commissionò la famiglia Sicomo. La marsina da uomo da riuso utilizzata è un broccato in filo di seta in liseré gros de Tours, seta blu, filo di seta policromo, filo d’argento, che era un oggetto di lusso riservato all’élite europea e che, probabilmente, la famiglia donò per la foderatura delle pareti interne della custodia del tabernacolo ligneo dorato. Stilisticamente l’opera ricorda le architetture barocche di derivazione Juvariana, a cui artisti come Giovanni Pietro Amico si ispirarono nel Trapanese. La famiglia Juvara fu una famiglia di artisti, argentieri, nata dal capostipite Pietro vissuto a Messina, attivo tra la metà del Seicento fino ai primi del ‘700. L’opera, in alcuni elementi architettonici, nelle linee e nelle forme, ricorda lo stile degli artigiani Juvara. L’intervento di restauro è stato finanziato dalla famiglia Mezzapelle-Galifi e ora l’opera sarà sistemata nuovamente nella chiesa del Purgatorio.
L’addetto stampa
Max Firreri